A volte, guardando al passato, si apre una finestra.
A volte la puoi anche scavalcare.
A volte però non sai mica dove finisci.
Quando ti ho vista entrare, seri lì a trabescà con la radio.
Me pias, quando ho un cicinin di tempo, vardà tutt ‘sti rob chi de l’elettronica: dietro al bancone da fondeghee batte un cuore da inventore.
Ci avevo in mente di trà föra vùn di quei cos, come se ciama, uolchi tolchi, dai pezzi della radio che la funziona no, ma poi ti te set vegnuda denter e mi sono fermato a guardarti.
Mi immagino il tuo suono, il frusciare di sete e crinolina, quando ti muovi in mezzo agli scaffali del negozzi, tocchi qualche sapone, guardi qualche riproduzione della Scala di Milano, annusi lo zafferano che viene dalla Turchia e te vedet minga i miei aggeggi elettronici, non li guardi mai, proprio mai. Il Remigio el gà rasun: lì in bottega, in mezzo al rusmarin e al furmaj, sun mica robi del mi mesté.
Il tuo suono più vero. Al cognussi minga per davvero: il baccan delle macchine e del tranvai qui copre semper tus cos.
Buongiorno sciur Beppe, mi dici, le è per caso arrivata la nuova crema Grammatica?
Ti rispondo che in negozzi l’è finida.
Tu pieghi un po’ le labbra, un accenno di broncio, e la bocca la diventa più piscinina, si rimpolpa, mi viene voglia di assaggiarla, e sento caldo sul collo.
Scuoto la testa, mi passo una mano tra il colletto del camice marròn e la guancia, cercando di nascondere il rossore crescente, e poi senti dumà che fregg.
Le tempie gelide, le orecchie rosse, che vergogna.
Ma tanto tu non te ne accorgi, per mia fortuna, per mia disgrazia.
Di grammatica non ce ne è mai abbastanza, dici, e mi sembra che la tua bocca si distenda per un attimo in un sorriso. Magari stai scherzando, io parlo male l’italiano, mi scappa semper il milanès, e tu sei una professoressa… forse alludi a questo, non alla crema.
Provo a sentire il Remigio in magazzin, forse ghe n’è ancora qualche scatola, ti dico.
Mentre infilo il dito nei cerchi del disco del telefono, ti spio.
I capelli neri, riflessi di blu, raccolti con un nastro dai colori tenui, le sopracciglia che ti si sono distese per la speranza di rincasare con il vasetto di Grammatica, o forse perché ti fanno pensare a qualcosa quelle cornici per foto che stai osservando.
Magari pensi al tò moros, che insegna alla scuola, come te… chi lo sa, non so molto di te, e l’è mej inscì.
Dalla cornetta arriva solo il suono acuto di libero, ma dall’altra parte il Remigio non risponde… strano, dico soprapensiero.
Mi accorgo che mi stai guardando: i tuoi occhi castani sono scuri, e in un attimo riprendono i soliti sconvolgimenti. Caldo, poi freddo…
Allora scappo dedré, dicendoti: senta, faccio un salto in magazzino, il Remigio non risponde.
Mi tolgo il camice e mi metto il paletot.
Tu mi dici: ma non si disturbi sciur Beppe, torno domani.
Ma la se figuri, signorina Iside, ti rispondo usando il tuo nome, come hai voluto che facessi fin dalla prima volta, e un brivido mi scompiglia i peli della nuca. Che musica proibita: Iside.
Usciamo assieme dal negozio, metto il cartello “torno subito”, e tu mi dici che allora ci vediamo tra mezzora, io annuisco e basta perché so che, se parlassi balbetterei.
Monto sul velocipede e sparissi ne la nebbia.
Che scighera che la ghè.
Tutta nebbia che l’è vegnuda giò col buio.
I lampioni non sono ancora accesi, ma è già notte anche se l’è appena dopo mezzdì.
Non si vede e non si sente niente… mi sono perso?
Impossibile, conosco a memoria queste strade… pedalo lungo il Giambellino, poi a destra, sul ponte del Cassala, poi curvo, giù, verso l’alzaia del naviglio, dove l’odore di umido diventa spesso, di acqua… ma quella… quella è la spicciola del Remigio.
Appoggiata a un palo della luce.
Smonto dalla mia, mi avvicino portandola a mano.
Non vedo altro che nebbia e il palo con la bici del Remigio, e un borsone lì di fianco.
Poi compare dall’alto, scendendo dal palo con tutta l’imbracatura degli elettricisti, lasciandosi scivolare a strapponi, poggiando i piedi al lampione alla fine di ogni tratto verso il basso.
Atterra e mi guarda con un sorriso sghembo mentre si toglie il cinturone, l'è semper l'istess il Remigio.
Io devo avere un’espressione da martur, perché mi dice subito: che facia de stupid.
Mette l’imbracatura nel borsone, e io quasi gli urlo: ma ‘ste fé? Te se matt?
Sabotaggio della Regia Azienda Elettrica, dice mentre indica in alto con un dito, sempre sorridendo con quel modo lì da ganassa, e conclude: oscuro tutta la zona!
Tu continuavi a rimandare, a dire che adesso l’è minga il mument, che ghè in gir tanti soldati… alura ho iniziato da me, se no spèta spèta che l’erba la cress.
Ma come…? Perché…? Non so mica cosa chiedergli, tanto sono rimasto di sasso. Non credevo che facesse sul serio, tutte le volte che mi ha proposto di vandalizzare l'illuminazione pubblica...
Perché? Alza le spalle… ghè la nebbia, senza luce vien fuori un bel rebelott mentre il Filiberto con tutto il suo regale seguito va al Teatro Ducale, dice, mentre ancora fruga nella borsa.
Come? Ci vuole ancora qualche lampione. Metti un po’ di questa sostanza sul rame dove si attaccano i fili e, appena li accendono… salta tutto il quartiere, finisce di spiegare, ridacchiando, mentre il suo indice, ancora infilato in uno dei guanti sporchi di grasso che usa al lavoro, ora è puntato sul vasetto della "sostanza" che tiene sul palmo dell’altra mano.
Un vasetto di crema.
Crema Grammatica.
Robi de matt.
Ma cosa l’è che ghè denter a quella crema lì?
Io non gliela porto mica alla signorina Iside.
Cià, va’, Remigio, dammene un po’ anca a mì, che mi metto a sgamelà.
Va ben, Beppe, ma moeùves, prima che ci arriva il Filiberto.