martedì 12 ottobre 2010

L'uomo di Schrodinger.

Il mio mondo è nero.
Queste quattro mura sono nere, la mia aria è nera, la mia pelle è nera, come il tempo, immobile e nero.
Sono l’uomo di Schrodinger.
Non so quando, la mia memoria, anche lei, è inghiottita dal nero… ma un giorno accettai di entrare in questa catbox, questa scatola nera, una cabina attrezzata per l’esperimento del gatto di Schrodinger, perché… avevo un debito con la società. L’alternativa era la formattazione cerebrale… o il cervello rasato, o la catbox.
Il primo uomo nella catbox. Dopo l’homo sapiens, ecco il primo uomo di Schrodinger. Il primo che è vivo e anche morto.
Che evoluzione.
Volevano osservare cosa succede all’attività subatomica dei neuroni di un uomo che è vivo e morto assieme, ma poi…
Sono in questo posto senza luce, senza suono, senza calore, senza speranza. Una cavia dalle mani nere, il respiro nero, il sonno nero.

Mi annido qui in fondo, nel buio mi acquatto. Vi attendo, sospendo, neanche sospiro. Rintano qui in basso,appiattito qui al varco. Nell’angolo vivo, di freddo furore. Il tempo non cede al mio odio paziente. Inatteso vi aspetto, e sorrido, sorrido sguaiato.

Il mio presente è nero, il mio futuro è nero, e anche il mio passato marcisce nel nero, ogni giorno più nero.
Inizio a fare fatica a credere che la mia vita è fuori di qui, anzi, che abbia mai avuto un’altra vita che non fosse questa.
Sono nato nel nero, le mie radici sono nere, il mio pianto è nero, il mio ombelico è nero.
Ho pensato tanto, non ho altro da fare qui dentro.
I primi tempi mi stendevo su questo pavimento nero, e guardavo là in alto, dove un giorno si sarebbe aperto lo sportello, e la luce pian piano si sarebbe fatta strada, mi avrebbe coperto, scaldato, vestito… ma poi quella luce, anche quella… è diventata nera.
Allora ho pensato che forse la teoria ha una falla, che non ci sono solo due “me”, uno vivo e uno morto, che coesistono finché non viene aperta questa scatola, ma che ce ne sono infiniti… infiniti me che sono morti, infiniti me che sono ancora vivi, e non appena mi metti qui dentro tu crei queste infinite dimensioni in cui abitano questi infiniti me, che coesistono finché sto qui dentro e non mi osservi, ma poi…
Ma poi… in quale di queste dimensioni tu, aprendo la catbox, mi trovi, vivo o morto che io sia? In quale di tutte quelle infinite dimensioni che hai creato?
E se in un numero infinito dimensioni io esco di qui vivo ma in altrettante dimensioni non esco perché sono crepato? Che cazzo hai fatto a fare questo esperimento, eh?
Come potrai mai sapere tutti gli infiniti risultati, poi? In quelle dimensioni in cui sono vivo, secondo te che cosa è uscito di qui… quale cosa nera è strisciata fuori da qui, da me, che mi cresce dentro, ogni minuto nero che passo qui dentro, ogni battito nero, ogni lacrima nera che mi cola sul volto?

Nascosto, confuso di scuro, son pronto. Affilo i miei denti, i cattivi pensieri. Di silenzio è fatto il momento. Raccolto in un angolo, ascolto. Verrete, aprirete, e io sarò lì, esperimento riuscito, la scienza, la boria, e mille maniere per rendervi morti. A labbra conserte poi resterò, mirando il deserto di sangue che un tempo era voi.

La mia anima è nera. Muore di un veleno nero. Che non è quello del dispositivo subatomico che può scattare, o no, finché resto qui.
È sinuoso, muto, feroce e freddo. In agguato, nelle crepe del mio mondo, nero, di me stesso, nero.
Io sono anche nero.
Cosa uscirà, dove non muoio?
Cosa?

- Va bene, il grande momento è arrivato! Preparate gli elettrodi, monitor cerebrali pronti! Apriamo la catbox!
- Vediamo… vediamo… cosa abbiamo qui?

Io sono l’uomo di Schrodinger.
Io vi aspettavo da tanto...
Io: sono nero.

domenica 3 ottobre 2010

Epithymia. (HardTuba)

Buio.
Boccate calde.
Macchie leggere, di luce, monitor, lampada, scrivania, ditate, cenere, divano, crepe nel muro.
Ti calchi la tuba in testa.
Inizi.

Le mani sul body, sussurra il tessuto che pulsa di musica.
Un ritmo che è dolce, che è blu, di vetro che vibra.
Poi mani più giù, sui tuoi fianchi nudi, le cosce, le autoreggenti.
Soffio di carne, di macchie di luce, boccate di caldo, di scarpe col tacco.
Ti muovi, ti muovi, io vibro, tu vibri.
Curve di panna, fette di lampada, turgide, freddo di schermo, calda boccata, danzi, ti volti, ti pieghi, ti curvi, un filo di stoffa, le labbra, le chiappe, il naso che sfiora la pelle segreta, mi blocchi la mano che vuole la carne, il brivido fresco, e ti muovi.
Ti muovi.
Seno che ondeggia, capezzolo sfugge, mi tocca le labbra e ritrai, ritorna là sotto, quel bordo, a sudare, e via quella tuba, liberi riccioli, boccata di caldo nell’aria, sei lì, nel silenzio affamato, che pieghi una gamba, un arco di carne e saliva, la allarghi con gesto tranquillo, la posi col tacco sul braccio, il divano, ti apri sinuosa seguendo quel ritmo, sussulti, ti tendi, il profumo di fica che chiude i miei occhi, la mano che blocca il tuo piede dov’è, sento il nylon, rimani, le dita che affondano, natica nuda, il mio viso che morde il tuo succo che è sodo, ma tu ridi, divincoli, e muovi.
Ti muovi.
Ti allontani, sorriso puttana, il tuo culo sfiorato da luci affamate.
Ti giri, le tette scoperte, le mani, il buio sonoro, ricalchi la tuba, l’ombra sugli occhi, le gambe ora strette, struscianti, ti spogli, ti danzi e concedi, ti pieghi, vagina alla lingua, lo sguardo, la smania, il toccare, mani sporche da uomo su pelle tersa di donna, strizzare, succhiare, avere, godere.

Mi fai un gesto col dito: avvicinati, stronzo.
Mi alzo, ti seguo.
Cammini, sedere di latte, la schiena, i capelli, occhi verdi improvvisi, il tuo collo, la spalla, la guancia, son miei, sono notte, sono duro.
Sono tuo.

Sotto la tuba, solo scarpe col tacco.