
Mi metto due maglioni, anzi tre.
La gente non ha idea di quanto faccia freddo.
Poi i calzoni della tuta, e sopra i jeans.
Due paia di calze, e spingo, sbatto in terra, e indosso anche le scarpe da ginnastica.
Mi infilo il cappotto, tutto abbottonato, abbondante sciarpa e, certo, il passamontagna, se no la faccia ti cade a pezzi, la gente non ne ha un'idea.
Metto il naso fuori.
Annuso.
Che aria buona che c’è, ogni tanto, anche qui.
E via, allora.
Prima faccio qualche passo, poi di corsa, uno dietro l’altro, scricchiola il cortile sotto i miei piedi, mi piego sulle gambe, e via!
Via.
Salgo.
Sfioro i muri giallognoli di queste case, li immagino attraverso le dita, saranno tiepidi di tubi di caldaia, di minestroni e programmi della domenica, faccio cadere un po’ di intonaco, passando, uno sbuffo di granelli grigi, e salgo verso le terrazze.
Tambureggio sulle ringhiere dall’interno cavo, suonano, rapidi e profondi diapason, nere di vernice.
E poi mi libro.
Verso l’alto.
Mi libero.
Nel cielo di Milano.
Quando cerca di immaginare cosa si provi a volare, la gente non ha idea di quanto faccia freddo quassù.
Nemmeno quanto sia difficile trovare un po’ di tempo per sentire, tastare, chiudere gli occhi, respirare col naso il profumo terso di questo sole azzurro.
L’aria che scintilla e mi ingolfa i vestiti, li sbatte, turbina, suona la sua musica nelle mie orecchie e mi spinge su.
Godere del tuo corpo che fila nell’aria, senza ostacolo.
Libero dal peso, dalle direzioni, gioco un po’, mi muovo strampalato, come se affogassi nel nulla, su per la nuca mi sale una risata argentina, apro la bocca, bevo questo liquido frizzante da far male, poi mi compongo.
Impenno, rimango in stallo, mi rituffo verso una piazza seminata di neve, ma plano, e torno su, torno su, torno su.
Volo, volo, sono molto in volo, volo!
Volare per volare.
La gente non ha proprio idea, di cosa significhi.
La città, poi guardo la città.
Corre sotto di me in direzione contraria.
Come suo solito, verrebbe da dire.
Guglie, aghi, fili, viali, castelli parchi posteggi e palazzi, tutti ghiacciati dalla mia velocità, con il loro metallo, il vetro, gli abbagli e il fumo che trasuda dalle tegole rosse che chiazzano i giardini pensili.
E poi strade e polvere e auto e persone vestite di nero.
Tutto gira come un mangano di persiane sbattute dalla luce fredda dei televisori sull’asfalto pallido di anni e anni di inverni.
Finalmente, con un sorriso stanco, alzo gli occhi, spilli di gocce, e le vedo.
Giganti sorridenti di larghi piani d’acquamarina, là in fondo, sedute, che osservano, nonne che aspettano i propri nipoti che giocano.
Le montagne.
Richiudo gli occhi.
Porto le braccia al corpo.
Fuso, dritto, sfreccio là, lontano.
Tutto resta alle mie spalle.
Vado verso di loro, perché già lo scorgo.
Dietro le montagne già spunta Gennaio.