martedì 17 novembre 2009

L'altro viaggio. (2)


L'uomo è appesantito, ma si arrampica.
Facendo leva sulla roccia che emerge dalla terra secca, raggiunge la cima.
Poi si volta a guardarli.
Si passa una mano tra la barba sfatta, facendola scricchiolare.
Il pazzo, la punkettina e il capellone.
Ci sono ancora tutti.
Da qui bisogna prendere lo scivolo che passa sopra il mare, dice loro, indicando con un braccio teso la struttura alle sue spalle, ma senza guardarla.
Sembra uno di quegli scivoli che c'erano nei parchi acquatici, una volta.
Ma è alto, ripido, sembra non finire mai la sua corsa.
Passa sopra il "mare", quella distesa di sabbia marcia che ora esiste al posto del vero mare.
Illustre scomparso da tempo, la parola stessa significa altro, ormai.
L'uomo non ci pensa su, e si arrampica sulla scala.
Anche quella è altissima, da non guardare sotto, che ti viene un buco dentro.
Ha paura mentre sale, e spesso si guarda sotto, anche se sa che non deve farlo: la faccia grassoccia e sporca del pazzo, quella minuta e pallida della punk, e quella spigolosa del capellone, che diventano sempre più lontane.
Stringe i denti e le mani attorno ai tubi arrugginiti.
Piolo dopo piolo, arriva alla fine.
Si siede, le mani sui bordi dello scivolo di metallo consumato, rigato, ansima di paura.
Si dà una spinta, che tanto scendere dalla scala non se ne parla.
Meglio lo scivolo.
L'aria diventa sempre più spessa, veloce, fischia nelle sue orecchie, mentre gli sembra di cadere, tanto è verticale la discesa.
Muoio, finalmente, pensa freddo, ma poi di colpo l'inclinazione cambia, lo stomaco arriva in gola, la voglia di vomitare, la testa, gli occhi che vogliono esplodere per la pressione.
Poi rovina sulla sabbia, alzando un'ondata di grani scuri, e polvere che rimane incollata a mezz'aria, tanto è densa, umida.
Sbatte le mani tra loro, e poi sui jeans.
Si accerta di avere ancora la borsa a tracolla.
Guarda verso la punta della costa, disseminata di scogli spelacchiati, frangiflutti smangiucchiati, e altra pietra ormai inutile.
Vede in lontananza la forma aliena dell'aeroporto della città, strambi volumi protesi nello spazio, sembra un granchio, grasso di acciaio, che si arrampichi verso il sole.
Si volta quando sente un tonfo alle sue spalle.
Viene investito da una sventagliata di terriccio e odore di polvere rancida.
È arrivato il pazzo, che già fruga nel suo zaino, la dinamite.
Gli altri?, gli chiede.
Si cagano sotto, non vengono, sono tornati a prendere il treno.
L'uomo con la barba sfatta scuote la testa.
Andiamo all'aeroporto, che si sta facendo buio, dice al dinamitardo.
Si avviano rimanendo vicino la costa, attraverso scogli rotolati in quella distesa nera, diretti a doppiare quel promontorio.
In lontananza l'aeroporto è già una gigantesca cattedrale buia.
Pochi rasoi di luce alle sue spalle illuminano appena la sua pelle di metallo.

Rimango rannicchiato sul fianco.
Fa freddo, mentre tasto con la mano il pavimento, le scarpe.
Devo sbrigarmi per l'aeroporto.
Poi agli altri ci penserò.

4 commenti:

marlene ha detto...

mi crea l' immagine di un spazio sterminato senza confini materici e intoccabile in netto contrasto col tuo tastare il pavimento finale... alcune cose riesco a immaginarle molto reali, sbrigati per l'aeroporto!! marlene

peppermind ha detto...

Marlene... non osavo sperare che certe sensazioni riuscissi a passarle °__°
Mi sbrigo!
(Grazie)

Claudio dei Norma ha detto...

Pepster.
Non riesco a pensare di lasciarti null'altro che proiezioni. Le MIE letture, le MIE immagini, le MIE ossessioni.
Perché quello che scrivi lo sento dentro. Ma è difficile, mi è difficile spiegarlo.

peppermind ha detto...

Claudio: Le proiezioni sono proprio quelle che ci vogliono.
Grazie :)