Il caffè della caffettiera, che verso nella tazza da cappuccino, lo annuso a occhi chiusi, la condensa in punta di naso, e bevo.
Il caffè che hai i caloriferi che non vanno, maglioni su maglioni, aspetti domani che arriva l’idraulico, e ti scaldi.
Il caffè scuro come il mare scuro.
Il caffè del Nicaragua, che te lo senti nei denti, come il fumo dei camini di pietra di un villaggio.
Il caffè dell’Ikea, buono come un tavolo di mogano.
Il caffè che sono le sei del mattino, ancora 500 parole da tradurre, mi sa che non mi corico, vado diretto in ufficio a lavorare, ma prima me lo bevo, sbircio l’alba candida, silenziosa di sonni, lì fuori dalla finestra, nei cortili.
Il caffè della macchinetta dell’ufficio, miscela arabica, 6 centesimi più caro della miscela ciofeca, lo prendo doppio, ma mi viene da dormire lo stesso.
Il caffè che ti fermi all’autogrill, che guardi le donne abbronzate, i bambini, gli uomini con gli occhiali da sole e i ragazzi stanchi di tanti zaini, poi le montagne, poi ancora sull’autostrada.
Il caffè di Portos, dei Tre Moschettieri, di quel film là, che è un caffè nuovo, sapore appena arrivato, una vera droga, che la consuetudine di secoli non lo ha ancora ficcato nei caffè di tutti i giorni.
Il caffè della Coop, onesto, proletario, che ci sta dentro.
Il caffè che non mi vuoi, che non voglio andare a letto, un’altra notte a pensarti, addormentarmi per dormire niente, e svegliarmi col primo pensiero che sei tu, sempre tu, che non mi vuoi, e bevo con gli occhi aperti, li chiudo alla fine del sorso, che bruciano di vapore.
Il caffè che dopo c’è la sigaretta.
Sempre.
Il caffè che prima mangi le paste di mandorla di Avola, al fresco dei tavolini, che poco più in là c’è la piazza piena di sole, le ape car dei pizzaioli, la strada che porta al mare, mentre dall’altopiano cala la brezza che sa di campi secchi e pietra, e poi lo bevi, ed è dolce.
Il caffè che rimane sulla lingua, dopo la sigaretta.
Il caffè che si fa strada, scendendo, e si accoccola come un gatto caldo, nero, in attesa.
Il caffè del Kenya, aspro come la montagna, la fame, profumato come il tabacco di un mondo che è lontano, dove?, lontano.
Il caffè che, prova la miscela del Costarica, cacchio che buona, lo compro che me lo porto a casa, ma poi a casa sa di olive, che schifo è ‘sta roba.
Il caffè con lo zucchero, che non bevo più.
Il caffè della torrefazione vicino casa, che buono che è, lo ricompro, ma è sempre chiusa adesso, mi sa che è fallita, per forza, come fa a fare affari qui, non passa nessuno.
Il caffè senza zucchero, più maschile.
Il caffè che faccio girare ondeggiando la tazza, castano scuro come quegli occhi.
Il caffè che siamo seduti sul letto, che tu lo fai diventare freddo, e me ne accorgo quando faccio un altro caffè, e mi siedo di nuovo sul letto, e lo bevo di nuovo.
Il caffè che la gatta mi guarda che lo bevo, un sorriso nascosto dalla tazza.
Il caffè dopo mangiato, gli occhi che seguono il film che si agita sul monitor, le labbra no, che sto bevendo.
Il caffè dopo che hai appena ballato, rotondo, gustoso, sodo, come il culo di una negra.
Il caffè che studio, che bevo, che studio, che ne bevo un altro, che studio ancora.
Il caffè che, vieni, prendiamoci un caffè, che ormai è mattina, i muscoli indolenziti, le risate, la calma, di tutta una notte passata all’aperto, insieme alla città.
Il caffè prima di uscire, che poi mi metto le scarpe, che fuori c’è il sole.
Il caffè che sono solo.
Il caffè che vabbe', un’alzata di spalle.
Il caffè che bevo.