venerdì 30 ottobre 2009

Vita in grani.

Il caffè senza zucchero.

Il caffè della caffettiera, che verso nella tazza da cappuccino, lo annuso a occhi chiusi, la condensa in punta di naso, e bevo.


Il caffè che hai i caloriferi che non vanno, maglioni su maglioni, aspetti domani che arriva l’idraulico, e ti scaldi.


Il caffè scuro come il mare scuro.


Il caffè del Nicaragua, che te lo senti nei denti, come il fumo dei camini di pietra di un villaggio.


Il caffè dell’Ikea, buono come un tavolo di mogano.


Il caffè che sono le sei del mattino, ancora 500 parole da tradurre, mi sa che non mi corico, vado diretto in ufficio a lavorare, ma prima me lo bevo, sbircio l’alba candida, silenziosa di sonni, lì fuori dalla finestra, nei cortili.


Il caffè della macchinetta dell’ufficio, miscela arabica, 6 centesimi più caro della miscela ciofeca, lo prendo doppio, ma mi viene da dormire lo stesso.


Il caffè che ti fermi all’autogrill, che guardi le donne abbronzate, i bambini, gli uomini con gli occhiali da sole e i ragazzi stanchi di tanti zaini, poi le montagne, poi ancora sull’autostrada.

Il caffè di Portos, dei Tre Moschettieri, di quel film là, che è un caffè nuovo, sapore appena arrivato, una vera droga, che la consuetudine di secoli non lo ha ancora ficcato nei caffè di tutti i giorni.


Il caffè della Coop, onesto, proletario, che ci sta dentro.


Il caffè che non mi vuoi, che non voglio andare a letto, un’altra notte a pensarti, addormentarmi per dormire niente, e svegliarmi col primo pensiero che sei tu, sempre tu, che non mi vuoi, e bevo con gli occhi aperti, li chiudo alla fine del sorso, che bruciano di vapore.


Il caffè che dopo c’è la sigaretta.

Sempre.

Il caffè che prima mangi le paste di mandorla di Avola, al fresco dei tavolini, che poco più in là c’è la piazza piena di sole, le ape car dei pizzaioli, la strada che porta al mare, mentre dall’altopiano cala la brezza che sa di campi secchi e pietra, e poi lo bevi, ed è dolce.

Il caffè che rimane sulla lingua, dopo la sigaretta.


Il caffè che si fa strada, scendendo, e si accoccola come un gatto caldo, nero, in attesa.


Il caffè del Kenya, aspro come la montagna, la fame, profumato come il tabacco di un mondo che è lontano, dove?, lontano.

Il caffè che, prova la miscela del Costarica, cacchio che buona, lo compro che me lo porto a casa, ma poi a casa sa di olive, che schifo è ‘sta roba.


Il caffè con lo zucchero, che non bevo più.

Il caffè della torrefazione vicino casa, che buono che è, lo ricompro, ma è sempre chiusa adesso, mi sa che è fallita, per forza, come fa a fare affari qui, non passa nessuno.


Il caffè senza zucchero, più maschile.


Il caffè che faccio girare ondeggiando la tazza, castano scuro come quegli occhi.


Il caffè che siamo seduti sul letto, che tu lo fai diventare freddo, e me ne accorgo quando faccio un altro caffè, e mi siedo di nuovo sul letto, e lo bevo di nuovo.


Il caffè che la gatta mi guarda che lo bevo, un sorriso nascosto dalla tazza.


Il caffè dopo mangiato, gli occhi che seguono il film che si agita sul monitor, le labbra no, che sto bevendo.

Il caffè dopo che hai appena ballato, rotondo, gustoso, sodo, come il culo di una negra.


Il caffè che studio, che bevo, che studio, che ne bevo un altro, che studio ancora.


Il caffè che, vieni, prendiamoci un caffè, che ormai è mattina, i muscoli indolenziti, le risate, la calma, di tutta una notte passata all’aperto, insieme alla città
.

Il caffè prima di uscire, che poi mi metto le scarpe, che fuori c’è il sole.


Il caffè che sono solo.


Il caffè che vabbe', un’alzata di spalle.


Il caffè che bevo.

mercoledì 28 ottobre 2009

CLAMOROSO! Pubblicata la conversazione telefonica avvenuta tra Pepper e Marrazzo!

Peppermind: ... sì?
Chi è?
Cosa c'è?
Ma che ora è?

Marrazzo: (piagnucolio, rumore di gocciolio)

PM: Proto, proto? (cadenza pugliese)

Marrazzo: FFROOOOONNN (rumore di soffio di naso)

PM: E che cazzaroletta... magari mi ci tiri anche una scorreggia, adesso?

Marrazzo: Sono Marrazzo...

PM: E chissenefr-

Marrazzo: Non metta giù, la prego... ho bisogno di risposte!

PM: Certo che voi comunisti di merda, ci avete la fissa con 'ste domande e risposte, eh?
Ma uscite!
Divertitevi, andate a donn... mh.
Niente.
Dicevi?

Marrazzo: Ho bisogno di risposte!
Parla!
Parla!
Vuje me guardate co' quest'uocchie scure, e nun parlate!

PM: Sì... e felicissima sera, a tutte sti signure 'ncruvattate e a chesta cummitiva accussí allèra, d'uommene scicche e femmene pittate!
E famme chesta domanda ca ta rispunne!

Marrazzo: ... ah sì...
Ma io... io sono meglio di Berlusconi?

PM: Ok, chiedo l'aiutino da casa...

Marrazzo: Dai, dai!
Sono una merda come lui?

PM: Non esageriamo... ci vogliono anni e anni di pratica.
Sei ancora un pivellino, via... presidente della regione che va a troie con la Lancia presidenziale.
Robetta.

Marrazzo: Ma sono TRANSESSUALI!

PM: Vabbe', quelle del Berlusca ci hanno il cervello così brillante e agile da escogitare la mitica ideona di fare le puttane per far soldi!
Che mi frega dei tuoi gusti sessuali?
O di quelli del premier, beninteso.
Vai con i trans, con donne dall'intelletto bovino, con caloriferi con le bistecche giustapposte a mo' di vagina tra le barre, non mi interessa, va bene.
Certo... favorisci lo mercificazione del corpo (come si diceva quando eravamo marxisti) e vari giri di malavita mica da ridere, ma non sei diverso dalla maggioranza degli italiani.
Certo, ancora, se ci andavi con la tua lambretta, invece che con la macchina presidenziale, era meglio.
Certo al cubo, se lo dicevi che ti piace il cazzone, senza vergognartene, senza mentire alle spalle della tua famiglia, sarebbe stato ancora meglio... per te e i tuoi cari, eh?

Marrazzo: Ma allora sono una merda come lui... (rumore di pianti da prefiche a un funerale)

PM: Sei una merda... ma non come lui, dai.

Un fecaloma, via.
Non sei imbevuto di arroganza e fiero delle tue porcate, come lui.
Non hai fatto della famiglia cattolica uno dei perni della tuo manifesto politico, per poi fottertene bellamente in privato.
Non vai in giro a palpare culi di transessuali, e a vantarti che ti fanno dei gran pompini nei corridoi non resistendo al tuo fascino di uomo ricco e potente, che però paga per scopare.
Non umilii in continuazione la figura della donna, o del transessuale, manifestando che per te è poco più che bestiame da monta.
Berlusconi ha reagito allo scandalo con la sicumera di un Conte Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare.
Tu come un Fantozzi, anzi, come la Pina.
Ti sei fatto intimidire dai Caramba, umiliare, torturare come un qualsiasi no-global impaurito, costretto a farsela addosso nella caserma di Bolzaneto.
Se invece avessero provato a ricattare Berlusconi, li avrebbero trovati loro il giorno dopo, menati, sodomizzati e sparati con la lupara dello stalliere.

Marrazzo: Quindi...

PM: Quindi hai di che vergognarti, ma per ragioni ben diverse.
Hai tradito la tua famiglia... ma son affari tuoi: prima ti mandava rai 3, ora ti ci manneranno loro.
Che tutto 'sto bailamme alla fine è perché ti scopi degli uomini, che se fossero state escort, facevi solo ridere, in confronto al maestro.
Questa fregola del "io devo sapere tutto di chi voto!", è una scemata da americani.
A me frega sega, sia di quello che fa il Berlusca in privato, sia di quello che fai tu.
Mi importa solo quando è concretamente in contraddizione con il programma politico, o con le idee che a mio avviso dovrebbero essere supportate, non ridicolizzate (tipo quello della parità di diritti delle donne).

Marrazzo: Non devo ritirarmi allora?

PM: Ma fa' un po' quel che ti pare.
Ma se rimani: dichiara la tua sessualità senza paura, e piantala di usare l'auto blu per andare a limonare nei parcheggi, e checcazzarola.
E vale lo stesso anche per il Berlusca, con l'aggiunta di tenere le mani e la lingua in tasca quando dovrebbe pensare allo stato e non al suo puparuolo.
Per me, il resto è fuffa.

Marrazzo: Ifff, nifff (rumore che tira su col naso) ...

PM: ... dai, adesso soffia bene il nasino… vieni qui, dai.

Marrazzo: PROOONNNN.

PM: Ecco… e tira su la patta, che si vede il pistolino, che poi sembri Berlusconi.

Marrazzo: … sì (ziiiippp).

PM: Bravo, sgneeec, sgneeec (rumore che gli metto a posto i capelli coi diti umettati di saliva).
Ora va a giocare in giardino!

Marrazzo: Posso giocare al dottore?

PM: Forse è ancora un po’ presto per quello… eh?

Marrazzo: Allora gioco al ritiro nel monastero.

PM: Ecco.
Meglio.


SE TELEFONANDO IO POTESSI DARE LEZIONI DI VITA A MARRAZZO, DALL'ALTO DELLA MIA IMPECCABILE ETICA, GLIELE DAREI.
POI, COL FAVORE DELLA NOTTE, PUBBLICHEREI TUTTO SUL BLOG.

domenica 25 ottobre 2009

L'altro viaggio. (1)

L'uomo sulla spiaggia è appesantito.
Ha la barba sfatta, e guarda verso il mare, mentre si aggiusta la borsa a tracolla.
Verso il mare che non c'è più.
Un tempo il blu di quella coperta infinita si fondeva all'orizzonte con quello del cielo.
Ora non più: dove una volta c'era quell'immenso animale liquido, c'è una spiaggia, la carogna morente di una spiaggia, che va avanti, e avanti.
Per chilometri, solo sabbia nera, un limite netto, là lontano, che spezza la vista.

Controlla che nella borsa ci sia tutto: pane, una bottiglia d'acqua, il coltellaccio, il walkie-talkie...
Poi li sente arrivare, uno a uno alle sue spalle.
Quelli che deve guidare nel viaggio.
Una ragazza con i capelli gialli e rosa, troppo più magra di lui, la punkettina.
Un ragazzo coi capelli lunghi, sporchi, e lo sguardo spaventato, il capellone.
E il pazzo, anche lui sovrappeso, ma sempre attivo, che maneggia quella ceppa di dinamite, prima o poi ci ammazza tutti.

L'uomo si gira verso di loro, che ora sono fermi, a guardare il mare di sabbia nera.
Vede nei loro occhi quel senso di sgomento che prende chiunque osservi quella morte.
Bisogna che li porti via di qui, non tutti ci stanno dentro, prima che mi partono di testa anche loro, pensa l'uomo.
Andiamo, poi dice loro, e inizia a camminare verso la stazione ferroviaria del paesello di mare.
Ex mare.
In giro non c'è nessuno, alcune finestre sono bocche vuote.

Partiamo da qui, seguiamo le rotaie, dice loro.
Tanto i treni non si spingono più fin qui.
I marciapiedi della stazione, imbiancati dal sole, sono spaccati da crepe che suppurano d'asfalto molliccio.
Senza guardarli, parte dritto verso la prima galleria.
Sta per entrarci, ma si ferma, voltandosi verso il pazzo.
Sta guardando giù dal ponte, ha in mano un candelotto.
Vieni via di lì, muoviamoci, prima che riprenda il terremoto, che mi voli di sotto, gli dice.
E si addentra nel tunnel fitto di buio.

Escono dalle tenebre un poco più avanti nello stesso paese, un tratto in cui i binari attraversano la passeggiata sul mare (che continua a non esserci più), passaggio a livello arrugginito, polveroso, ditate, impronte di piccole mani di bambini.
In giro non c'è nessuno.
Continua a seguire le rotaie che entrano sotto un porticato, prima di imbucare un'altra galleria.
Fa un gesto con la mano, a segnalare agli altri di seguirlo.
Non c'è proprio nessuno, oltre a loro.

Quando si gettano fuori da quella lunghissima galleria, si fermano a prendere respiro.
La punkettina e il capellone sono stati male, lì dentro.
Claustrofobia.
L'uomo guarda avanti a sé, alla costa verdebruciata che arginava il mare, scoscesa, adesso le tocca tuffarsi in quel deserto nero.
Il paese è ormai alle spalle, di fronte a lui la strada selvatica da percorrere.
La mano attraversa il calore dell'aria, quando indica agli altri che si prosegue.
Riprende il viaggio.

Apro gli occhi.
Bruciano.
Respiro spezzato, stretto.
Nel buio, cerco a tastoni la borsa, per vedere se il walkie-talkie è acceso.
Ho il corpo agghiacciato e indolenzito.

mercoledì 21 ottobre 2009

Tango tanto.

L’uomo e la donna si guardano.
Accigliati.
La musica inizia, decisa, un battito vitale.
La luce è roca, densa, dai contorni sfumati.
Respirano a ritmo.
L’uomo fa due passi, intreccia le sue dita con quelle della donna, cingendola in vita.
Iniziano a ballare.


Lui, steso nel letto, le mani sotto il guanciale, ha gli occhi chiusi.
Sorride.
Annusa quel che traspira.
Lei già dorme leggera, voltata sul fianco.
La curva di un gluteo.
Un frutto morbido, tra lenzuola blu.

L’uomo e la donna ballano.
Ballano.
Salgono su un divano, ne calciano via i cuscini, roteando i loro corpi, lei distende la nudità di una gamba, disegnando un arco sospeso.
Si fermano, si toccano con la testa, fissandosi dentro, crudeli, e riprendono.
Seguendo il respiro sonoro.


Lei parla.
Lo prende in giro.
Cambia discorso.
Pensa, tacendo.
Corre in avanti, si ferma.
Parla indicando qualcosa.
Lo guarda.
Lui cammina con calma.
La guarda, la ascolta.
Ogni tanto la raggiunge.
Si ricorda di tutto.

L’uomo la stringe a sé, poi la allontana.
La donna acconsente e cambia prospettiva.
Si inarca all’indietro, i suoi occhi scorrono i libri dello scaffale più alto, il soffitto scuro, poi tornano in quelli dell’uomo.
Ballano ancora, incedono, salendo su una scrivania.
Tastiere di computer, libri, penne sparse e monitor, si alzano come terriccio.
Ballano tra le cose, scompigliandone la placida esistenza.


Lei ride.
Lui ride.
Si abbracciano, si accudiscono.
Poi lottano ridendo.
Ridono ancora.
E poi scopano.
Guardano un film.
Non riescono a finirlo, scopano ancora.
Poi riprendono il film, da quel fotogramma che li ha osservati per tutto il tempo.
Ma si addormentano.
Sognando titoli di coda, paesaggi dagli orizzonti lontani.
E sale loro in gola ancora una risata.

L’uomo è caldo di sudore.
La donna ci si mischia.
Ballano, ballano ancora.
Due passi e sono sul davanzale della finestra.
Girano il volto verso quella penombra d’arancia e sale che pulsa da dentro la stanza.
Poi guardano gli alberi irrequieti di sole che gesticolano fuori.
E saltano.
Ancora ballando.
Nella luce delle case e dei portoni.
Tra la gente.
Tornando a fissarsi negli occhi.
Un mezzo sorriso.
Ballando.

domenica 18 ottobre 2009

Girastelle. (radio version)

Mi appoggio al parapetto ruvido e già freddo di questa terrazza.
Le piante non hanno bisogno di me, questa sera.
Socchiudo gli occhi, come gli spiragli illuminati che soffiano fuori la vita di casa, esistenze già chiuse al caldo per cena, che l’inverno è iniziato.

Ma poi accade.

La notte si avventa come un uragano secco di vento e aria tersa.
E io sono nell’intrico di una pianta.
Nudo, la pelle raccappricciata da folate che sbucano dalle fronde.
Inizio a scalare questi rami massicci, che si snodano in ogni direzione.
Tutto intorno il vento sbatte, coprendo ogni altro suono.
Lo so, lo sento, è un'unica pianta.
Non tante, nessun vaso, nessuna foresta, una sola che è cresciuta a dismisura, contorta, impennandosi, arrestandosi, riprendendo a girare ancora, rincorrendo se stessa.
Un ghirigoro di un bambino dispettoso, arrabbiato, disperato.
Non ha corteccia.
So perché, lo sento, ma è ancora tutto ricacciato indietro, e mi arrampico, lividi e graffi, correndo dietro a questa sensazione.
Preso dall’emozione dell’attesa, accelero, insisto, salgo più in alto, mi fondo con questo essere arboreo, con il suo immergersi tra lo spazio.
Questo... gambo, sì, è un gambo, proteso.
Proteso verso.

Verso il buio di questo cielo.
Notte.
E d'improvviso: vedo.
Mi fermo, stracciato, sudato, sull’ultimo stelo che ancora può sorreggermi.
Guardo.
La corsa dell'intera pianta rallenta, sottile, in una linea ormai scura, che cade in un grumo pesante di sonno.

E finalmente capisco, e ricordo.
È un girasole.
Potente, sformato, contorto e ferito.
Un girasole.
Esausto, chiuso in sé, come una lacrima secca.
Dorme, lascia che questa notte faccia i suoi comodi.
E se ne vada.
Che la smetta.
Questo fiato gelido e osceno sul collo.

Perché lo cerca ancora.
Stanco di tutta questa strada ritorta.
Continua a farla.
Insiste e gira, e sa che è la sua anima vera.
La parte cruda del suo nome.

Domani non lo vedrà.
O forse sì?
Domani, chissà.
Potrà voltarsi verso il mare.
Verso un nome diverso.
Chissà.

Mi sveglio da questo incubo di veglia.
Tremo, addentato dalle onde di quest’aria buia e cristallina.
Mi avvolgo nello spolverino.
Non mi volto verso le feritoie di colore che lasciano colare televisori e sigarette dai condomini.
Ridiscendo, e basta.
Dalla terrazza.
E non solo.

Un saluto da una mente fantasma.
Da territori con pochi girasoli.
E sempre occupati.


(Se volete leggere l'extended version guardate qui.)

venerdì 16 ottobre 2009

Ci ho bisogno di conferme nella vita, ma anche nella mail.

Ecco che ci arriva questa mail su support@internettoes.it!
Ecco che ve la sciorino, quasi per fare outing e liberarmene per poi vIvere libero e bello, tutto sciampato e fonato coi capelli leonini tutti all'indietro:

"Salve colleghi (colleghi a chi? Cosa colleghi? Ma collega tua mamma, magari al computer, e col joystick muovila come fosse un orso ballerino, vai, dai)

siamo stati incaricati dal sig. Fasolari di effettuare il trasferimento
del dominio in oggetto, ed ho provveduto a fare un reinvio dal portale
della mail con il link per l'inserimento dell'Auth Code di rito
(rito? RITO? Vai cor tamburo grande capo Chiappone Sudato! Unga gawa bunga gawa ué, ué, unga gawa bunga gawa ohehhh, ohehhhh).

La mail di destinazione dovrebbe essere domini@internettoes.it, stando al whois, mi confermate chel'indirizzo (chel’o confermo non lo so mica, veh?) è corretto e soprattutto che viene letto?
(Posso confermarti che viene letto, ma chi mi conferma che tu mi leggi? EH? EH? Solo avere niente dare per voi briansoeu de l’ostia, l’è semper inscì.
E se ti confermo, chi ti conferma che ti ho confermato? EH? EH? E chi ti conferma che hanno confermato che ho confermato? EEHHHH? Terzo omm’emmerda che non sei altro!
Poi troppo facile scrivere con la certezza di essere letti, chi ti credi di essere? Bruno Vespa? Il Brunetto Vespa dei ricchieppoveri, altrochenò)


Il sig. Fasolari lamenta delle difficoltà con questo passaggio (non avevo dubbi, né sul fatto che si lamentasse, né sulla certezza che avesse grosse difficoltà, essendo nostro cliente e avendo assoldato te come tecnico, va’ tranquillo), vi saremmo particolarmente gradi di tutto l'aiuto e le agevolazioni che vorrete darci (ma scattano i calci in culo, altro che agevolazioni e sedili reclinabili in pelle).

Grazie in anticipo
(Va’ a ciapà di ratt in posticipo)

Saluti

Francesco Pota"


Salutam'assorete.

SE TELEFONANDO IO POTESSI
SBATTERTI NELLA CAVERNA DI PLATONE E LASCIARTICI A VITA MA A GUARDARE LA PARETE SBAGLIATA, QUELLA DOVE IO CI STO FACENDO LE OMBRE CINESI, LO FAREI...

mercoledì 14 ottobre 2009

Ermetica Mente: dimostrazione dell'inesistenza del paradiso.

Da piccoli è una figata.
Tutto è chiaro, tutto è passione, si gode tanto.
Da giovini è medio.
Tutto confuso, anche se passionale, si soffre tanto.
Da vecchi è uno schifo.
Ti sembra tutto chiaro, ma son balle, passioni zero, si gode zero, al limite si soffre.
Progressione geometrica: dopo morti sarà ancora peggio, una vera merda.

Corollario:
La vita eterna è il minore dei mali.

Esercizio:
Prove tecniche di vita eterna.
Seguo pedissequo
l’unico uomo che ci prova.
Giro per il cortile in accappatoio col birignao a penzolon e in bella vista.
Appena posso lo sventolo di fronte ai miei vicini arabi, e quando mi vogliono accartocciare di sberle,
gli dico che sono terribili, e tutte robe così.
Ho anche la casa zeppa di bambole gonfiabili escort, che non ci ho mica tutti quei soldi, e che comunque suppongo che il mio modello, the premier, abbia avuto a che fare per un bel pezzone solo con le bambole gonfiabili, così a occhio, dall'idea che ci ha delle donne.

venerdì 9 ottobre 2009

Adiesselle, sbarazzina, dove vai?

Cosa c’è?
Cosa c’è nell’aria che mi rende il cliente gossipparo e malandrino?
Due ticket aperti, da due clienti diversi, tutti e due nello stesso giorno…

Ticket 1:

“Il cliente ha attaccato per la prima volta il router opportunamente configurato, ma non si è mai allineato.
Una notizia curiosa per voi (curiosa per noi, ma anche per voi, per loro, per tutti quanti!) che potrebbe aiutarvi (l'unica cosa che potrebbe farlo sarebbe che tu te ne andassi da qualcun altro a comprare le robbose adsl, fidati): nei giorni in cui è stata fatta l'attivazione della adsl (pausa, climax, tensione che si taglia con un grissino... ATaNSIòN... e an, de, truà) il cliente ha lamentato un guasto al telefono e gli abbiamo detto che poteva essere una coincidenza.
(OOHHHHHH! Lancio di gatto morto sul palco per la delusione)
Gli abbiamo detto di chiamare Telecom ed avvertirli del guasto.
Hanno sistemato il tutto in un giorno ed il giorno dopo sono arrivati anche i parametri della adsl.
(Che non ci hanno manco il ritegno di fingere, che non ci hanno!)

Ma te guarda che robe, veh?
Ci deve essere tutto un movimento di adsl escort che poi con tutti questi premier coi puparuoli di fuori, ci chiudono il telefono, che ci chiudono, per non farsi auscultare dai servissi segreti!
E chi ci va di mezzo se non il povero cliente e la sua onesta fabbrichètta?
Porcaloca!

Ticket 2:

“Non và, sempre lei, quella dovrebbe essere la linea più affidabile!!

Urgente

Mio recapito: (numero telefono)

Marietto Pissitiello”

Aehaeehh!
Che cose che a uno ci tocca sentire!
Che uno ci fa i sacrifizzi, si toglie il pane e salame, la maionese e quel vinello buono, da bocca, per mandarli a scuò, AAAHEEH!, e questa ligna, sempre lei, che la cunussi ben, mì, minga vi alter, questa ligna t'appugnala alle spalle, che t'appugnala!
Che dovrebbe essere la più fidabile, quella su cui ogni paparino conta per vedere i propri sogni realizzati, ma disi mì!


Ma vada via i ciap, ti e anca ‘l to amìs.

mercoledì 7 ottobre 2009

Settembre sfugge.

10.23
Mi sveglio.
Sono steso tutto sulla parte destra del letto.
Raggi di sole filtrano dalle persiane, insieme a un’aria fredda.
Irrompe il pensiero: Rachel deve prendere il treno, non è suonata la sveglia.
Mi metto a sedere di botto.
La mano sinistra tasta di fianco a me, lenzuola stropicciate, lei non è a letto.
La luce in cucina è accesa.
La chiamo, ma non risponde.
Forse è sotto la doccia.
Mi alzo, la cerco, ma non è in casa.
Esco in cortile, ancora in boxer.
Guardo come il sole fa luccicare le biciclette, le magliette stese, la faccia di una signora sdentata, in quel modo assonnato dell’estate.
Ma il cielo è blu scuro, scosso dal vento e dalle nuvole.
Perché sto cercando Rachel qui fuori?
Non ha senso.
Mi sento le gambe molli.
Fatico a deglutire.
Non riesco a svegliarmi.
Poi si accende la radio.

7:50.
Si accende la radio.
La voce di
Radio Popolare legge gli articoli dei quotidiani e li commenta, ogni tanto scariche elettromagnetiche, e si intromette un coro di chiesa.
Radio Maria.
Rabbrividisco sentendo quella colonna sonora da cattedrale buia che accompagna la lettura sconfortata della nostra volgarità.
Raggi grigi come ferite attraverso le persiane.
E un’aria afosa.
Mi alzo, ammaccato da una notte di sogni di viaggi a piedi, do da mangiare al gatto, mi preparo per andare in ufficio.
Quando esco dal portone in bicicletta, il tempo pesa con tutte le sue nuvole sulle mie gambe.
Aspetto che passino le auto per immettermi nel traffico.
Aspetto, aspetto.
Ma non finiscono mai.
Fa un caldo umido.
Eppure indosso una giacca impermeabile.
Aspetto, aspetto, non finiscono mai.
Non ha senso.
Mi tremano i muscoli delle gambe.
Un grumo di sonno si scioglie dietro la nuca, mi rende la testa leggera, sbadiglio.
Non riesco a svegliarmi.
Poi suona il telefono.

20:11
Suona il telefono.
Pensieri pesanti, di moto retrogradi, sono svenuto di sonno, sul divano, ancora da seduto.
Il collo mi fa un male cane.
Dalla finestra entra il buio invernale, e un’aria fresca, di gente a tavola per cena.
Cerco il telefono, che continua a suonare.
Lo trovo, rispondo.
È mia madre.
Mi dice che mio fratello oggi non poteva passare dall’ospedale.
Se so qualcosa di Warpath, come sta.
Le dico quello che so.
Poi le solite domande: adesso mangi?
(Certo, ogni tanto lo faccio anche io)
Domani vai al lavoro?
(Immagino di sì, a meno che non mi decida finalmente a mettere una bomba nel Duomo)
Ti chiamo sempre verso le otto?
(Sì, dai, va bene)
Ciao, ciao.
(Ciao)
Ma non mangio, sono troppo rincoglionito.
Mi metto le scarpe, esco per strada a snebbiare.
Fanali, insegne, vetrine di kebabbari e ristoranti giapponesi, ondeggiano splendenti nella sera già fitta.
Ma perché cammino?
Non ha senso.
Mi sento le gambe senza peso, fatico a tenerle composte.
La bocca dello stomaco sforna una vampata di calore, le mani sono fredde, vacillo tra panico e felicità.
Non riesco a svegliarmi.
Poi suona il telefono.

7:50
Sì, sette e cinquanta, vedo attraverso le palpebre doloranti.
Dalle persiane nessun segno di vita.
Mi metto a sedere, rispondo al telefono.
È mio padre.
Mi chiama perché gliel’ho chiesto io, che sapevo che avrei finito di tradurre tipo alle cinque di mattina, e non ero mica sicuro che due sveglie bastassero.
Mi dice le solite cose, che c’è brutto tempo, che però non piove, prendo la bicicletta?
(Sì)
Cerca di farmi parlare, per svegliarmi, allora Warpath sta bene?
(Sì)
Insiste, allora sabato vieni a trovarci?
(Sì)
(Cioè, non lo so, vi faccio sapere)
Ok, allora buona giornata.
(Sì)
(Cioè, altrettanto)
Mi alzo, stracciato da una notte di sogni in cui sognavo di tradurre un testo in cui io sognavo di tradurre che traducevo, do da mangiare al gatto, mi preparo per andare in ufficio.
Esco in cortile, guardo il cielo.
Non è grigio, è livido.
Fa freddo.
Ma tutto ha senso.
Le gambe salde.
La testa, lo stomaco, le mani, la gola.
Piano piano mi sveglio, mentre entro nel giorno.

Dev’essere già Ottobre.

Mi dico.

Dedicato a Claudio, e ai suoi Settembre.

sabato 3 ottobre 2009

Modalità provvisoria.

Clearmind: Riavvio inizializzato.
Controllo funzioni logiche?

Peppermind: Fatto.

CM: Controllo analisi semantica?

PM: Fatto.

CM: Controllo strumenti cognitivi per applicazione ostinata e continua alla realtà?

PM: Fatto.

CM: Installazione stanchezza da 5 mesi di sonno arretrato?

PM: Fatto.

CM: Nausea appena vedi una traduzione?

PM: Done.

CM: Verifica:
“Devi tradurmi 2000 parole per domani.”

PM: Caccaculo.

Caccaculo: CACCACULO!

CM: Fermo lì, tu.
Controllo sopportazione limite massimo superato da anni per l’attività di help desk?

PM: Fatto.

CM: Verifica non necessaria.
Controllo senso di colpa?

PM: Fatto, c’è tutto.
Non riesco quasi ad alzarmi, quando mi stendo, tanto pesa.

CM: Non intendevo “controllo” in quel senso.
Vabbe’.
Occhiaie?

PM: OK.

CM: Controllo sveglie?

PM: Fatto.

CM: Aria tersa, luce obliqua sui panni stesi, una musica che suona di continuo proprio sotto i tuoi occhi?

PM: A posto.

CM: Vestiti stropicciati, le stelle come sbadigli nell’oscurità quando non guardi, mentre cammini tra girandole di foglie e vento?

PM: Tutto a posto.

CM: Hai sbirciato questo sabato di vita degli altri, che non si volta a guardarti, che sorride da altre scogliere, altri mari, altra schiuma d’onda, con gli occhi dietro gli scuri?
Hai preso con te i tuoi respiri mozzi, le labbra spaccate di questa solitudine, e sei uscito?

PM: Fatto…

Milk Mind: Allora sei pronto.
Ora vai.

PM: Ancora cinque minutini…

Milk Mind: Vai.

PM: Vado, vado.
Ma che caccaculo.
Però.

SE TELEFONANDO IO POTESSI CAPIRE, FARE… NON LO SO, NON LO SO.

venerdì 2 ottobre 2009

Sentiero di guerra.

L’infermiere dice che, sì, stanno mettendo a posto la stanza.
Poi possiamo entrare.
Cerco di lavarmi le mani, ma non c’è sapone.
Torno lì, allora.
Mi metto quei soprascarpe blu.
Aspetto.
Le spalle curve.

Io e te nel bar della cooperativa.
Tu giochi a uno di quei videogiochi che sei bravo, fai record impressionanti, fai durare le cento lire per ore.
Io ti rompo le palle, che voglio giocare anche io.
Un ragazzo più grande mi minaccia, di lasciarti in pace.
A te viene mezzo sorriso, la faccia illuminata dai suoni del giochino.
Anche a me scappa da ridere.

Io e te in quella pensione di Siena.
Mi sveglio, e ti vedo che stai rollando.
Ti chiedo se sei matto, a quell’ora.
Mi hanno svegliato i rompicoglioni, dici tra i denti.
E un rullare di tamburi lontano, di botto esplode nella via.
La contrada di Salcazzo ha svoltato l’angolo, e ora annuncia la sua partecipazione al paglio proprio sotto le nostre finestre.
Mi affaccio.
Osservo il capo tamburo.
Sarà anche vestito a festa, ma rimane un cesso d’uomo, dico.
Ti affacci anche tu.
Ma quanto brutto è?
Ridiamo, mentre mi passi la canna.

Io e te in Spagna.
Ci hanno fottuto.
Il tipo a cui abbiamo dato i soldi è uscito dall’altra parte della casa, e niente fumo.
Dovremmo incazzarci, ma ci guardiamo in faccia, e ci vien da ridere.
Torniamo, e vediamo l’altro tipo, il nostro spacciatore usuale.
Dove ceppa era prima?
Compriamo da lui.
Rientriamo in quell’appartamento a piano terra, ma così a piano terra, che sembrava di stare per strada, con le finestre sempre aperte.
Tu inizi a tirar su, che poi arrivano gli altri e si fuma.
Un arabo vestito con una tunica dai motivi verdi e viola, sgargiante, si affaccia dalla strada, quasi entrando in casa.
Ci dice qualcosa.
Non capiamo una bega.
No comprende, gli dico.
Quello quasi si arrabbia, e insiste.
Io allargo le braccia: Spiass…
Se ne va.
Tu mi guardi.
Ma chi ca…?
Non riesci a finire la frase, perché ridiamo, alle lacrime.

Io e te in casa tua.
I Red Hot a palla.
Io ballo, fumato.
Tu mi indichi ridendo.
Poi mi siedo.
Rimaniamo in silenzio, col sorriso stampato.
Dopo un po’ ci picchiano da sotto.
Sarà per il ballìo, dico.
E tu ridi, ridi, e io con te.

Mi fanno entrare.
Sei steso, le braccia aperte.
Un cristo deposto e addormentato.
Liquido giallognolo nei tuoi occhi.
Respiri quieto.
Ascolto.
Giro intorno al lettino.
Non dico niente.
Allungo una mano, ma lascio perdere.

Svegliati.
Abbiamo ancora molto di cui ridere.
La guerra non è finita.


Scusate tutti, volevo disabilitare i commenti, pensavo di averlo fatto, invece no.
Lo faccio adesso.
Vi ringrazio per quello che avete scritto, non l'ho cancellato.
Solo, lo tengo per me.